La riforma del credito cooperativo, tra luci e ombre

25 Febbraio 2016

Commento di Carlo Borzaga

Quella del credito cooperativo italiano poteva essere una buona riforma, e invece il decreto che è uscito dal Consiglio dei Ministri di mercoledì 10 febbraio rischia non solo di mettere a repentaglio l’intero sistema del credito cooperativo, ma di cambiare con poche righe – e senza nessuna motivazione – il modo stesso di concepire il ruolo dell’impresa cooperativa sviluppato in Italia dal 1946. Nonostante le riflessioni maturate nel corso di oltre un anno, sembra che il Governo sia arrivato all’approvazione del decreto senza avere una soluzione chiara su come tenere insieme due necessità potenzialmente contrapposte: quella di rendere il sistema del credito cooperativo italiano più coeso e meno rischioso, e quella di non limitare eccessivamente la libertà di impresa imponendo di fatto l’adesione ad un unico gruppo. Ed ha finito per scegliere, tra le varie opzioni possibili, quella peggiore.

Un decreto di dubbia legittimità

La soluzione contenuta nel decreto infatti non solo è probabilmente discriminatoria e di dubbia legittimità – sia costituzionale che in tema di aiuti di Stato – ma assume un rilevante peso politico dal momento che, per la prima volta in Italia, apre di fatto la strada ad un processo di sostanziale demutualizzazione – e lo fa addirittura senza indicarne i beneficiari. Al punto che la volontà più volte dichiarata dal Governo – prima e dopo l’approvazione del decreto –  di rafforzare il sistema del credito cooperativo, suona ormai come una presa in giro. Perché questo decreto non solo non rafforzerà il credito cooperativo italiano, ma finirà per indebolirlo.

Il provvedimento governativo sembra infatti muoversi in coerenza con i reiterati richiami al fatto che in Italia ci sarebbero troppi banchieri e poco credito o che non può pretendere troppa attenzione chi ha solo il 7% dei depositi. Dimenticando che non sono state le grandi banche a garantire il credito nel corso della crisi e che, se si guarda al sistema del credito cooperativo dal lato degli impieghi, la sua rilevanza, in generale e soprattutto per il tessuto delle piccole e medie imprese, risulta di ben maggiore portata.

In realtà, per risolvere il problema della compatibilità tra rafforzamento del sistema attraverso l’aggregazione in gruppi e la libertà di impresa il Governo aveva a disposizione diverse soluzioni: quella di fissare una soglia di capitale che consentisse di creare – almeno in teoria – più gruppi, fino a quella di consentire alle Bcc con un adeguato valore del patrimonio di continuare a operare in autonomia. Lasciando poi a soci e amministratori la scelta tra le diverse opzioni, senza pensare – in un chiaro eccesso di paternalismo – che sicuramente avrebbero optato per quella peggiore. Ed eventualmente incentivando la scelta ritenuta migliore attraverso o la leva delle esenzioni fiscali o quella dei requisiti di capitale.

… che indebolisce l’intero settore cooperativo

Il Governo invece ha scelto di lasciare che le Bcc con un patrimonio di almeno 200 milioni continuino di fatto ad operare in autonomia ma a condizione che o si fondano con altre banche (popolari o in forma di Spa – anche se con patrimoni inferiori) oppure procedono alla “cessione di rapporti giuridici in blocco e scissione da cui risulti una banca costituita in forma di società per azioni” cioè trasformando la banca in Spa con la BCC che ne detiene la proprietà con tutti i diritti collegati. Ma non ha spiegato quale sia la ragione che lo ha convinto a imporre il cambiamento della forma giuridica come condizione per il mantenimento dell’autonomia. Forse perché ritiene che la governance di una spa a carattere locale, controllata dagli stessi soci e amministratori della Bcc, funzionerebbe meglio? Sulla base di quali evidenze empiriche diverse dalla passione per il modello dell’impresa di capitali che pare aver conquistato– con un certo ritardo –anche l’Italia e il suo governo di centro-sinistra? O l’obiettivo non è piuttosto quello che la trasformazione in Spa faciliti l’ingresso di nuovi azionisti alla ricerca di facili guadagni o la fusione con altre banche in forma di Spa? Allora non si dica però che si riconosce la rilevanza del credito cooperativo e che lo si vuole rafforzare: non lo si rafforza certo favorendo la trasformazione di una parte di esso in qualcosa di sostanzialmente diverso, non solo per la forma giuridica ma soprattutto per il modo di fare credito.

Stupisce poi che il Governo abbia deciso di riproporre un modello proprietario del tutto simile a quello con cui sono state privatizzate la Casse di Risparmio e le banche pubbliche, la cui evoluzione è stata a dir poco faticosa e che proprio questo Governo ha tanto criticato fino a concordare una ulteriore riduzione della presenza delle Fondazioni nel capitale delle banche. Il Governo davvero ritiene che se invece che una fondazione a detenere la proprietà della banca sarà una cooperativa – a questo punto non più di credito ma di nuovo conio – tutto decreto credito_postfunzionerà alla perfezione?

Ciò che preoccupa tuttavia non è solo l’impatto che il decreto avrà sul sistema del credito cooperativo ma il fatto che esso stravolge – con le poche righe di un comma di un articolo dedicato ad una riforma di carattere settoriale – la lunga storia e le specificità della cooperazione italiana, non solo consentendo, ma addirittura incentivando scelte che possono determinare un significativo indebolimento dell’intero settore. L’Italia è infatti uno dei pochi paesi dove il carattere non speculativo della cooperazione non è solo riconosciuto e protetto dall’art. 45 della Costituzione, ma è stato tradotto fin dal 1946 nella combinazione di due vincoli che si rafforzano a vicenda: la costituzione obbligatoria di riserve indivisibili; e il divieto di distribuire ai soci pro tempore – in caso di dissoluzione, trasformazione o fusione – il “patrimonio effettivo” (e quindi non solo le riserve indivisibili), con l’obbligo di devoluzione dello stesso ai fondi mutualistici (così recita la più recente versione della norma all’art. 17 della legge n.388 del 23/12/2000 peraltro citata espressamente dallo stesso Governo nel testo del decreto). E’ stata la combinazione di queste due norme, e non una sola di esse, che ha favorito la costante crescita e diffusione di questo modello di impresa e la sua tenuta nel corso della recente crisi. E sono ancora queste le clausole che hanno impedito i processi di demutualizzazione che hanno caratterizzato, soprattutto a partire dagli anni ’80, il movimento cooperativo in diversi paesi e si sono dimostrati dopo pochi anni un sostanziale fallimento.

Assumendo quindi a riferimento per fusioni e trasformazioni le sole riserve indivisibili e non il patrimonio e imponendo il versamento al fisco – invece che ai fondi mutualistici – soltanto del 20% il governo di fatto cambia le norme in vigore fino a prima dell’approvazione del decreto e consente di fatto non solo di demutualizzare ma anche di farlo “a basso costo”. Anche la previsione che una Bcc possa cedere l’attività bancaria mantenendo in capo a se stessa il 100% del patrimonio, sebbene non comporti immediatamente una demutualizzazione, snatura sia la cooperativa (che in questo modo diventerebbe di fatto una specie fondazione) che il modo di gestire l’attività creditizia, non più con finalità mutualistiche ma speculative. Il meccanismo inoltre non garantisce contro una futura demutualizzazione perché nel decreto nulla si dice su come debba esser gestito il patrimonio e se possa o meno essere alienato e a quali condizioni. Nel mondo esistono pochi esempi di istituzioni simili e quei pochi non sono stati di particolare successo: basti ricordare l’esempio della banca cooperativa inglese che era organizzata esattamente nello stesso modo ed è stata recentemente liquidata a causa delle perdite dovute al malfunzionamento della governance.

Nessuna regola è necessariamente eterna e anche questa potrebbe in teoria essere messa in discussione, dagli stessi cooperatori o dal legislatore, ma non senza un serio dibattito preliminare e non con un provvedimento improvvisato come quello contenuto nel decreto governativo. E con una motivazione che, se c’è (e per ora non la si trova da nessuna parte), è comunque molto debole e di parte.

…che favorisce la  speculazione

In ogni caso, tuttavia, se si decide di demutualizzare anche solo una parte del sistema cooperativo, si tratta di un’operazione che andrebbe comunque fatta seguendo procedure trasparenti e razionali. Occorrerebbe in particolare indicare con precisione come va valutato il patrimonio effettivo – che, nel caso di una banca, può essere anche significativamente superiore al valore delle riserve -,  chi lo valuta e chi ne diventa il proprietario, e a quali condizioni. Tutte indicazioni che nel decreto non ci sono. E non solo come già ricordato perché assume a riferimento le riserve e non il patrimonio effettivo, ma anche perché –  sia nel caso in cui la scelta cada sulla fusione con una spa che nel caso di cessione dell’attività bancaria ad una spa – il decreto non indica né chi sarà il proprietario del patrimonio né come saranno valorizzate le quote di capitale di cui sono titolari i soci: diventeranno soci della spa in proporzione al capitale sottoscritto? In questo caso però il valore delle azioni– che a questo punto sarebbero vendibili visto che il decreto non dice nulla in merito – sarà commisurato al patrimonio effettivo conferito e quindi potrà risultare anche molto più elevato del loro valore nominale.

…e discrimina

 

Infine, il decreto è chiaramente discriminatorio: Bcc diverse solo per dimensione del patrimonio sono sottoposte a regole differenti senza alcuna ragione. Infatti tutte quelle con meno di 200 milioni di patrimonio che volessero cedere l’attività o trasformarsi sono comunque tenute a rispettare le regole dell’indivisibilità del patrimonio effettivo e a devolverlo ai fondi mutualistici. Ma il Governo è proprio sicuro che il solo parametro dimensionale giustifichi questa discriminazione? Le regole da seguire non dovrebbero piuttosto essere uguali per tutti i soggetti interessati, piccoli e grandi, amici e nemici?

In conclusione

Di fronte a una simile riforma resta solo la speranza che, se il decreto non sarà modificato, siano i dirigenti e soci delle bcc italiane a ritrovare l’orgoglio e la volontà necessari a non cedere né alla tentazione di massimizzare i vantaggi immediati né a quella di privare i propri territori di un istituto che si è dimostrato capace, pur non senza errori, di sostenere lo sviluppo non attraverso donazioni – per questo ci sono già le Fondazioni di origine bancaria, quelle di impresa e quelle di comunità – ma gestendo il credito in modo non speculativo. E lavorino quindi in comune accordo per un soluzione di sistema condivisa. Dimostrandosi così più lungimiranti del “governo delle riforme”.

 

 

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