Giovannini: “Per costruire un futuro migliore serve un’utopia sostenibile”

29 Ottobre 2018

Il portavoce dell’ASviS intervistato per il WCM. “La cultura della sostenibilità è nel DNA del movimento cooperativo”

di Marika Damaggio

L’indole dell’economista s’interseca con una grammatica interdisciplinare, polisemica. Tant’è che Enrico Giovannini cita il compianto Zygmunt Bauman. Ne ricorda le categorie concettuali, costruite con piglio didascalico osservando le spinte nostalgiche di oggi, rivolte a un passato glorioso eppure, forse, mai esistito. “Retrotopia”, l’ha definita il sociologo polacco. Poi, l’ex ministro prosegue col ragionamento. Cita Edgar Morin e, unendo i tasselli di un mosaico ideale, arriva a una considerazione personalissima: “Per costruire un futuro migliore ci serve un’utopia. Un’utopia sostenibile”, dice il portavoce dell’Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile (ASviS). Così ha titolato il suo ultimo libro (Laterza) e così suggerisce di agire. Perché il cambiamento che ci attende è talmente profondo che l’impegno disatteso è un rischio censurabile. Dalle colonne dell’edizione 2018 del World Cooperative Monitor, Giovannini indica in questi termini il bilancio, in chiaroscuro, che ci separa dall’Agenda 2030.

Professore, l’Agenda 2030 – con i suoi 17 Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (SDGs) – pone l’urgenza di rivedere l’attuale modello di sviluppo, ritenuto fortemente deficitario non solo sul piano ambientale, ma anche su quello economico e sociale. Poste queste premesse, come si sta adattando, se si sta adattando, il sistema economico globale?

“Si sta adattando con molta e troppa lentezza. Gli impegni che sono stati presi a settembre 2015, con l’Agenda, e a dicembre dello stesso anno con gli accordi di Parigi, ovvero la prima attuazione dell’Agenda 2030, solo in parte hanno determinato un vero e proprio cambiamento nel funzionamento delle economie del mondo. C’è, da un lato, più consapevolezza circa le connessioni tra economia e disuguaglianze, tra economia e distruzione dell’ambiente, tra economia e sostenibilità della crescita economica, perché non è sufficiente mettere soldi in tasca alla gente per risolvere i problemi. Dall’altro lato, però, osserviamo scelte politiche – come quella degli Stati Uniti, fuoriusciti dagli accordi di Parigi – che vanno in una direzione esattamente opposta: elevano muri, avviano uno sviluppo su base bilaterale anziché globale. Le spinte sovraniste, oltre che sintomo di un disagio forte, seguono traiettorie opposte agli SDGs. La buona notizia è che altri Paesi stanno prendendo seriamente gli impegni posti dall’Agenda. Ci sono importanti iniziative, come la lotta alle plastiche avviata dalla Commissione europea, o come il pacchetto sull’economia circolare e la svolta verso una finanza sostenibile. Alcuni Paesi, è il caso del Canada così come la Nuova Zelanda, con le loro scelte energetiche e di promozione della giustizia sociale vanno in questa direzione. In definitiva siamo quindi dinnanzi a una situazione variegata e, all’ultimo High-level Political Forum for Sustainable Development (HLPF), a New York, questa situazione a pelle di leopardo è emersa pienamente”.

La velocità di adattamento e la comprensione della necessità di abbracciare uno sviluppo che sia economicamente e socialmente sostenibile quanto è omogenea (o disomogenea) nel mondo? E come stimolare processi di transizione – o se vogliamo riconversione – evitando di generare nuove disparità?

“Pensiamo all’Italia: il nostro Paese è proceduto a singhiozzo. Ha firmato l’Agenda 2030 e se ne è dimenticato finché Asvid non ha provveduto a svegliare le coscienze, chiedendo un’accelerazione che, in parte, c’è stata; penso per esempio all’approvazione della strategia energetica. Positivi anche il manifesto per lo sviluppo sostenibile presentato nell’ottobre 2017 da Confindustria, la piattaforma per l’Italia sostenibile della Cgil e, ancora, i progressi nella finanza sostenibile, rafforzati anche dalla spinta dell’Unione europea. Ciò detto, quando si entra nel dibattito quotidiano con le parti sociali, ovvero nella politica di tutti i giorni, ancora ci si sofferma sulla durata di un contratto, sui suoi potenziali rinnovi. Temi importanti, sia chiaro, ma non centrali. C’è una continua disconnessione tra urgenze e rilevanza dei temi.  Molte grandi e medie imprese vanno nella direzione auspicata, ma le piccole aziende evadono gli obiettivi e vanno avanti seguendo il passato anziché dedicarsi all’innovazione. Ciò che manca, in Italia, è una leadership che parli continuamente di questi temi e faccia scelte coerenti. In Spagna il nuovo governo fa la stessa scelta del governo francese: crea il ministero della transizione ecologica, oppure nomina il ministro per l’agenda 2030. Tante categorie intendono rendicontare seriamente i risultati negli SDGs, tuttavia la strada per coinvolgere effettivamente le imprese in processi seri di economia circolare è ancora lunghissima. Chi ha capito innova, chi non l’ha capito resta indietro e rimane aggrappato a una competitività basata sul prezzo”.

In tutto questo, quale potrebbe essere il contributo della politica? Come i policy maker possono diventare registi del cambiamento?

“Nell’evento iniziale del Festival dello sviluppo sostenibile, Monica Maggioni ha detto: “L’Agenda 2030 è un dono”. Lo è perché si tratta di un’agenda complessa, che ci obbliga a ragionare in termini altrettanto complessi e ci porta a riconoscere che nessuno ha la soluzione. Non ne esiste una soltanto: dobbiamo quindi cooperare. Come ho scritto nel libro “Utopia sostenibile”, di fronte alla complessità dei problemi ci sono tre reazioni: 1) distopia, ovvero accettazione di un futuro considerato orribile; 2) la tendenza alla retrotopia, così come spiegato da Zygmunt Bauman: ovvero tornare a un tempo passato, ideale, che non c’è mai stato, e quindi elevare muri, cedere al protezionismo; 3) oppure accettare l’Agenda 2030 come utopia sostenibile. Ecco, oggi sembra ci siano tendenze forti verso la retrotopia: i Paesi che si fanno affascinare dal mito del passato tendono a tornare indietro anziché fare salti in avanti. Chi invece ritiene che l’unica utopia possibile sia protesa verso uno sviluppo sostenibile, sociale e ambientale oggi deve far sentire la propria voce”.

Ripensare il modello di sviluppo dominante sino a oggi, significa anche e soprattutto cambiare sé stessi e avviare una transizione culturale, stimolare un processo quasi educativo, persino pedagogico: questo cambiamento le pare diffuso? Oppure il paradigma di ieri resiste ancora?

“L’educazione è fondamentale ed è per questo che Asvis s’impegna tanto su questo fronte: abbiamo già formato 3.000 docenti che hanno portato l’Agenda 2030 a scuola; il materiale formativo del corso e-learning è già disponibile per 33mila nuovi docenti e quasi 28mila relativi tutor. A livello europeo, l’ASviS partecipa come partner al progetto “Schools for the UN Sustainable Development Goals implementation” (Sudego), all’interno del programma Erasmus+. Il cambiamento di mentalità è cruciale, tutto si sviluppa attorno alla rapidità della trasformazione: prima lo si fa, più si è competitivi”.

E quali sono, a suo avviso, i settori economici o i modelli di impresa più ostili al cambiamento? Le grandi realtà? Quelle più piccole?

“I motivi all’origine delle resistenze sono quattro. Uno è culturale e tocca anche tanti miei colleghi economisti, i quali sono convinti che il modello basato sulla crescita quantitativa possa risolvere tutti i problemi. Il secondo risiede piuttosto nella cultura imprenditoriale: un investitore crede in un futuro migliore, e se tale fiducia non c’è, gli investimenti mancano. La terza considerazione è questa: accanto alle migliaia di imprese che attraverso innovazione, formazione e internazionalizzazione hanno superato la crisi e abbattuto la competizione ce ne sono tante altre rimaste al palo, senza ancora aver compreso il cambiamento profondo legato alla digitalizzazione, alla tecnologia. La quarta ragione ha a che fare con i costi. Cambiare costa e se qualcuno pensa “un paio d’anni e poi chiudiamo”, a prevalere è la volontà di capitalizzare nell’immediato per godere il frutto del lavoro anziché fare investimenti su quattro o cinque anni. Ma anche qui la politica ha una responsabilità: se passa il messaggio che si mettono un po’ di soldi in tasca ai cittadini per risolvere i problemi, difficilmente si innesterà il cambiamento necessario. Se invece riconosciamo che abbiamo difronte un’opportunità, il cui vantaggio è possibile, allora s’innesta un ragionamento diverso”.

Esiste una tipologia d’impresa che meglio di altre interpreta la necessità di spuntare i 17 obiettivi? Il sistema cooperativo quanto può contribuire alla propagazione di un nuovo modello sostenibile?”

“Ci sono soggetti, come il mondo cooperativo, che – di fatto – hanno nel Dna specifiche consapevolezze. Tuttavia non basta: il punto non è essere più bravi di altri, ma essere tutti, insieme, più bravi di ieri. L’ampiezza e la velocità del cambiamento richiede trasformazioni profonde. Siamo quindi chiamati a essere protagonisti di un’accelerazione e il movimento cooperativo, beneficiando della sua disponibilità culturale, può fare molto. Oggi più che mai è richiesto l’impegno di tutti, per un profondo cambiamento del modo in cui leggiamo e affrontiamo i problemi che ci circondano”.

Enrico Giovannini, portavoce dell’Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile (ASviS)

 

 

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