Euricse all’assemblea ICA in Ruanda

29 Ottobre 2019

Dal 14 al 17 ottobre abbiamo partecipato alla conferenza globale “Cooperatives for Development” e all’assemblea generale ICA a Kigali in Ruanda, presentando una preview dell’edizione 2019 del World Cooperative Monitor. L’evento è stato un’ottima occasione di networking, che ci ha permesso di incontrare ricercatori e cooperatori da tutto il mondo. Di seguito proponiamo una riflessione sull’evento del nostro segretario generale Gianluca Salvatori

Gianluca Salvatori e Ilana Gotz nello stand Euricse a Kigali

Oscillazioni cooperative a Kigali

Negli ultimi anni Euricse ha partecipato a diverse assemblee e conferenze dell’ICA, l’alleanza internazionale delle cooperative. Un punto di osservazione ideale per farsi un’idea dello stato di salute di una componente sistematicamente sottostimata, eppure per nulla trascurabile, della storia economica e sociale di molti paesi. ICA è una delle organizzazioni più globali che ci siano. È presente in tutti i continenti e in quasi ogni paese del mondo. È un dato di fatto che le cooperative sono diffuse ovunque, spesso da decenni, con una sostanziale omogeneità valoriale e una condivisione di principi fondativi comuni.

Ad un’assemblea generale partecipano mediamente le delegazioni di un centinaio di paesi. Coprendo uno spettro molto variegato per dimensioni e forza economica. Da cooperative di credito e assicurative, con fatturati miliardari, a cooperative agricole con poche decine di membri, e bilanci magrissimi. Dunque grande diversità, pur nell’unità dello stesso modello.

La conferenza di quest’anno – che si è svolta a Kigali, in Ruanda – probabilmente sarà ricordata per l’intervento di Vandana Shiva, l’attivista indiana nota per il suo impegno contro la globalizzazione e sui temi ambientali e della giustizia sociale. A lei spettava l’apertura, dunque in un certo senso la definizione della cornice concettuale da cui la conferenza avrebbe poi preso le mosse per trattare i propri temi. Ed è stata illuminante sotto diversi punti di vista.

Il suo intervento, come era facile aspettarsi, ha voluto ispirare la platea più che farla riflettere a partire da argomenti rigorosi e documentati. Ha parlato di responsabilità nei confronti della natura, della necessità di correggere radicalmente sperequazioni sociali e disuguaglianze, della resistenza da opporre alla fascinazione della tecnica, e delle molte storture del modello di sviluppo capitalistico che vanno messe in discussione per perseguire un’ideale di equità e giustizia sociale. Con toni appassionati e un susseguirsi di petizioni di principio, Shiva ha messo in luce come per creare un minimo comune denominatore le corde delle emozioni siano più facili da toccare rispetto a quelle della elaborazione intellettuale. Indicando così, in un certo senso, la strada che poi i lavori in plenaria e nei gruppi hanno ripreso con naturalezza. Quella della rivendicazione della diversità del modello cooperativo come risposta alle sfide sociali ed economiche del nostro tempo. Dove però alla rivendicazione identitaria non corrisponde con altrettanta forza l’indicazione delle strategie da adottare e degli interventi su cui investire per ampliare la scala della propria azione.

I discorsi che sono rimbalzati da una sessione all’altra nel corso della conferenza sono stati quasi tutti ispirati ad una sorta di “believer’s attitude”. Siamo cooperative e pertanto rappresentiamo un modello di impresa che per se stesso può contribuire ad uno sviluppo più equo e sostenibile, ovviamente in linea con i 17 SDG delle Nazioni Unite. Abbiamo un approccio sociale allo sviluppo economico e dunque siamo naturalmente impegnati a correggere le disuguaglianze da cui il mondo è sempre più afflitto. Siamo cooperatori e quindi operiamo attivamente per creare le condizioni di una pace intesa in senso positivo, come sviluppo umano e non solo come assenza di conflitti.

I partecipanti all’African cooperative researchers’ meeting

Questo è stato il tono dominante. Declinato attraverso racconti di esperienze e casi concreti in cui le cooperative sono riuscite a fare la differenza. Una collana di storie di successo che dimostrano che si può fare. Perché si è creata occupazione femminile, si è agito a favore dell’inclusione di soggetti deboli e marginali, si è portato sviluppo dove sembrava impossibile. Tutte narrazioni convincenti e esemplari. Eppure scollegate tra di loro. Apparentemente così specifiche e contestualizzate da renderne impervia la replicabilità. Concentrate sulla sopravvivenza in realtà puntuali, minacciate da condizioni al contorno spesso sfavorevoli se non proprio ostili. Ma in difficoltà nell’indicare, al di là della visione ideale, un percorso di respiro globale, misurato sulle sfide comuni. Un percorso articolato in strumenti, progetti e policy con un’ambizione pari alle dimensioni del movimento cooperativo mondiale.

Un ulteriore indizio di questa impostazione si ritrova nel documento finale della conferenza, sintetizzato in un messaggio che è difficile non considerare troppo minimalista: we are here! (https://www.thenews.coop/143412). Come se il fatto di esistere, di aver resistito nel tempo, di non essere scomparse, fosse già di per sé un successo per le cooperative. E in effetti non si può negare: lo è. Il punto è che nelle attuali condizioni non basta più. Non è sufficiente per reagire ai problemi che oggi vanno affrontati su scala globale o locale: dal cambiamento climatico al ritorno dei nazionalismi, dalla crescita delle disuguaglianze alla concentrazione della ricchezza e del potere. Se la cooperazione vuole essere coerente con le proprie ambizioni di cambiamento sociale, ripetutamente dichiarate con voce alta e stentorea, non può limitarsi a resistere e sopravvivere.

Così come non basta, per riprendere ancora le conclusioni finali, appellarsi al riconoscimento pubblico come leva principale del proprio sviluppo. Perché il messaggio che emerge dal documento conclusivo è proprio questo: la rivendicazione di politiche pubbliche favorevoli allo sviluppo della cooperazione come visione strategica. Non esattamente un esempio di autonomia. E neppure di conoscenza del proprio passato. Come se nel corso della storia il successo del modello cooperativo fosse stato la conseguenza di lungimiranti interventi normativi, e non piuttosto la capacità di farsi spazio anche in assenza di legislazioni di favore. Il riconoscimento da parte dello Stato quasi sempre è stato la conseguenza dell’abilità di imporsi sulla scena e nell’agenda pubblica fino a rendere inevitabile la propria istituzionalizzazione. Perché, non va dimenticato, la cooperazione è nata con i pionieri di Rochdale e non con un editto della corona inglese, in quanto risposta a reali bisogni sociali ed economici. Rispetto ai quali quella specifica forma di impresa si è mostrata in grado di fornire una risposta efficace, ancorché non ancora regolata istituzionalmente.

In sintesi, l’incontro di Kigali ha lasciato la sensazione di un andamento oscillante. Con l’alternarsi di dichiarazioni di fierezza identitaria e al tempo stesso una costante richiesta di legittimazione pubblica. Con la rivendicazione delle dimensioni globali del movimento cooperativo ma nel contempo la percezione di non riuscire a farsi valere in proporzione ai propri numeri. Con la consapevolezza del contributo che il modello cooperativo può portare ad un diverso approccio allo sviluppo sociale ed economico, in sintonia con gli obiettivi di uno sviluppo sostenibile, però stentando a lasciare il piano delle dichiarazioni di principio per immergersi nell’ambito concreto delle proposte.

Per un “osservatore partecipe”, com’è Euricse, il ritorno a casa ha significato quindi portarsi via delle sensazioni contraddittorie.

Riguardo alla potenzialità ideale ancora integra, di un modello di impresa che nasce dal basso in presa diretta con le necessità reali di persone e comunità. Contrapposta però alla difficoltà di affrancarsi dalla dimensione locale. Non per rinnegarla ovviamente bensì per dare più impatto alla proposizione trasformativa del modello cooperativo. Qui infatti si annida un problema che fatica ad emergere esplicitamente e che si può così sintetizzare: Kigali è stata la conferenza che più ha messo in mostra le piccole cooperative, controbilanciando le tre edizioni dei summit cooperativi organizzati in Quebec in cui la scena invece era stata tutta occupata dalle cooperative di formato maxi, protese a competere con le grandi imprese capitaliste. Come se non ci fosse alternativa a questo pendolarismo tra attenzione alle piccole e alle grandi. Rendendo con ciò ancora più evidente la distanza che le separa e la difficoltà nel mettere a fuoco un sistema di relazioni capace di dare valore a queste diversità (l’accenno alle filiere, in questo senso, avrebbe meritato di essere sviluppato maggiormente, se non addirittura di diventare il tema centrale dell’incontro).

Al di là delle intenzioni, quello cooperativo è un “sistema” debole proprio in ciò che dovrebbe distinguerlo di più, cioè nella capacità di far agire in rete le organizzazioni indipendentemente dalle loro dimensioni e dal potere che esercitano. Si ha la sensazione che permanga una divisione profonda tra grandi e piccole cooperative, e questo costituisce un ostacolo non lieve sul percorso verso una maggiore rilevanza globale.

Un altro tema emerso, che mette in luce tensioni irrisolte, riguarda il rischio di affrontare la realtà mettendo davanti a tutto la promozione della propria identità, con il rischio di trincerarsi in una sottocultura minoritaria. Scelta comprensibile – in quanto rassicurante e funzionale alla ricerca di un baricentro nella moltitudine delle esperienze in cui la cooperazione a livello mondiale si è tradotta – ma poco lungimirante, poiché privilegia la ripetizione rispetto all’esplorazione del nuovo. Questo interrogarsi ripetutamente e lungamente sull’identità cooperativa è anomalo perché rivela la necessità di continue conferme. E va di pari passo con l’enfasi sul quadro giuridico, che ricorre costantemente in tutte le conversazioni. Definire l’identità, normarla e promuoverla ritornano sempre come tema prioritario. Spesso prevalendo su altre considerazioni che dovrebbero invece rilevare di più ai fini della vita della cooperazione, specie sul lato dell’analisi dei bisogni sociali e della individuazione di soluzioni basate sull’agire economico.

Insomma, l’immagine emersa a Kigali è stata quella di un movimento impegnato soprattutto a definirsi. Trattando con minore urgenza il tema di come di far valere in concreto la propria specificità nel confronto con le sfide secolari. Indicativo di questo atteggiamento è stato l’ordine di presentazione dei quattro temi emersi dall’assemblea generale, che ha fatto seguito alla conferenza. Le linee strategiche, che tracciano le priorità di azione per il prossimo decennio, sono state presentate in questo ordine: promozione dell’identità cooperativa, crescita del movimento cooperativo, cooperazione tra cooperative e, infine, contributo allo sviluppo sostenibile. Una sintesi perfetta di come a Kigali si sia visto il profilo di una cooperazione rivolta soprattutto alla ricerca di sicurezze, riguardo alla propria identità e al riconoscimento pubblico.

Ma se questo è stato il filo del discorso che ha impegnato il dibattito in plenaria, è anche vero che nelle conversazioni dei gruppi e nei lavori delle sessioni tematiche non è mancata la consapevolezza che la portata delle sfide da affrontare richiede un sovrappiù di creatività e di rigore cui non bastano le dichiarazioni di principio. Via via che le discussioni scendevano sul piano delle pratiche concrete tra i partecipanti emergeva la coscienza che serve a poco riaffermare i principi cooperativi se non si è in grado di affondare l’analisi nella carne viva degli strumenti e delle scelte operative. Entrando nel merito di ciò che funziona e ciò che non funziona. Confrontando scenari. Analizzando dati. Sottoponendo a critica le attività che si ripetono per inerzia e proponendo nuovi approcci il cui potenziale innovativo deve ancora essere sperimentato e valutato. In altre parole, rinunciando a qualche certezza per esplorare nuovi percorsi, più adatti alle sfide del momento. Questi sono i temi che, forse, avrebbero dovuto essere trattati anche sul palco principale. Magari con meno romanticismo alla Vandana Shiva e con più freddezza analitica alla Esther Duflo. Per riflettere più fedelmente la realtà di un movimento che nella realtà sa misurarsi tanto con le proprie potenzialità quanto con i propri limiti. Con l’impegno di chi vuole affrontarli e superarli.

x