Capitale sociale, la (nuova) spinta delle metropoli

24 Ottobre 2018

di Gianluca Salvatori

Cos’hanno in comune Seoul, Montreal e Barcellona? Si tratta, è noto, di grandi città di tre continenti diversi; città di tendenza, con capacità di affermare una propria visione innovativa. Apparentemente distanti per storia, struttura e percorsi di sviluppo. Unite però – e questo è meno conosciuto – da un’agenda comune che fa perno sulla valorizzazione dell’economia sociale come elemento di governo della realtà cittadina.

Il punto di partenza è risaputo: oggi i temi più urgenti vanno individuati negli scenari urbani. È nelle città – e in particolare nelle grandi metropoli – che la disuguaglianza sociale perde l’astrattezza delle statistiche e dei rapporti di studio, per diventare materia reale. Nello spazio urbano si concentrano e si amplificano le opportunità e le contraddizioni dei modelli di sviluppo. Quando la capacità di coesione e integrazione si misura in concreto con la dimensione di vita quotidiana delle persone, l’esperienza vissuta ha la meglio sui concetti sociologici. Ed è allora che la convivenza fisica, la condivisione obbligata di spazi e di servizi, fa esplodere il suo carico di ansie e tensioni. Facendo piazza pulita degli equilibri messi a punto in decenni di gestione pubblica del welfare e di costruzione del consenso a sostegno delle politiche pubbliche.

Nella vita urbana la densità (o la carenza) di capitale sociale si trasforma da argomento per saggi accademici in sfida impegnativa per il governo della complessità. Il tema del capitale sociale è appunto il filo rosso che unisce Seoul, Montreal e Barcellona. Nel senso che sono tre città in cui è viva la consapevolezza che il capitale di cui nel futuro si avvertirà di più la scarsità è proprio quello sociale. Con effetti negativi anche sullo sviluppo economico, in una spirale perversa in cui quanto più prevalgono gli elementi che disuniscono e differenziano tanto meno la realtà risulta governabile in tutte le sue dimensioni. Perché sul tessuto che tiene insieme le relazioni sociali finisce per imporsi la forza della disgregazione, che intacca in profondità il senso di appartenenza ad un contesto civico condiviso.

Se ai nostri giorni la distanza dei cittadini nei confronti dello Stato è già di per sé un problema, quando il distacco si rivolge anche contro le istituzioni più vicine, come appunto il governo cittadino, l’allarme diventa molto più grave. Di qui il senso di straordinaria urgenza con cui gli amministratori di queste tre città, riunite insieme a molte altre nei giorni scorsi a Bilbao per il quarto Global Social Forum di Bilbao (GSEF 2018), si sono rivolti ad una platea di organizzazioni di terzo settore, per sollecitare un’iniziativa comune.

La crescita della disuguaglianza crea polarizzazioni che minano la convivenza e le città sono il terreno in cui il disagio sociale emerge più violentemente. A partire da questa evidenza lo scenario politico si divide sempre di più tra due posizioni. Quella di chi reagisce all’impoverimento del capitale sociale agendo per lo più sugli effetti, cioè sul senso di smarrimento ed incertezza che attanaglia le persone, con una proposta di recupero delle identità perdute su cui ricostruire nuove stabilità, provando a difendersi dal diverso attraverso la separazione e l’esclusione. Quindi, in definitiva, corrodendo ancora di più il capitale sociale disponibile. E quella di chi invece punta alle cause, individuando tra i motivi del rancore sociale del nostro tempo un’economia che sfugge alle sue responsabilità sociali e una politica troppo remissiva verso gli interessi più rappresentati.

Oggi il clima politico dei grandi centri urbani è sempre più spesso spostata verso la seconda di queste posizioni. Le metropoli appaiono più aperte delle nazioni alle quali appartengonoIl populismo attecchisce più facilmente a livello di politica nazionale che non a livello di città. Non perché i sentimenti di disagio non siano gli stessi. Ma piuttosto perché nelle città i problemi della convivenza richiedono comunque soluzioni praticabili e pragmatiche, non accontentandosi del furore semplificatorio delle grandi crociate.

Di qui la convergenza tra le realtà urbane più sensibili e anticipatrici nello sforzo di trovare spazi per far crescere vecchie e nuove forme di economia sociale, con l’esigenza di superare il ruolo puramente rivendicativo dei movimenti sociali per proporre azioni, anche in forma di attività economica, capaci di generare capitale sociale. Anziché limitarsi a sfruttare quello esistente, o peggio disperderlo senza possibilità di recupero, il governo delle grandi città vede come problema prioritario la rigenerazione di legami sociali. Per ricostruire relazioni in grado di gettare ponti tra le diversità anziché esasperare le differenze.

Al GSEF 2018 di Bilbao questo è stato il filo conduttore. Con due sottotemi presenti in ogni discussione. Il primo, sul versante delle pubbliche amministrazioni locali: come passare dalla parole ai fatti. L’economia sociale ormai è entrata nei programmi di governo di molte città globali e si moltiplicano le dichiarazioni che ne riconoscono l’importanza. Ma quando dal piano delle dichiarazioni si passa a quello delle azioni, la pratica dell’amministrazione condivisa e della co-creazione di valore per la vita urbana resta ancora un compito impegnativo che incontra molte resistenze. Inclusa la tentazione di rivolgersi all’economia sociale per esigenze di riduzione dei costi prima ancora che per convinta adesione ad un approccio di co-generazione del valore sociale.

All’economia sociale si guarda con un misto di aspettative contraddittorie perché i soggetti pubblici vi vedono al tempo stesso un alleato, utile a riconquistare la fiducia dei cittadini nei confronti delle istituzioni, e un competitore, in quanto il ruolo che rivendica per sé non è puramente strumentale ma esprime una domanda di piena partecipazione ai processi decisionali. Al terzo settore infatti non basta più definirsi in negativo per quello che non è (non-profit, non-governativo). Classificare la sua identità in termini meramente residuali o marginali come il lessico tradizionale porta a pensare (terzo settore, in questo senso, è una denominazione che andrebbe abolita) non coglie la novità profonda dell’attuale fase, che scardina tanto il rigido dualismo tra Stato e mercato quanto anche la divisione tra cittadini come portatori di interessi esclusivamente individuali e amministrazione come depositaria esclusiva degli interessi pubblici. Le organizzazioni del sociale possono farsi interpreti dell’interesse pubblico con la stessa legittimità (e talvolta con efficacia maggiore) delle istituzioni pubbliche. Questa ambizione del terzo settore di contare anche fuori dalle solite nicchie, ha però come effetto che anche gli altri soggetti sono chiamati a rivedere i propri schemi di comportamento, riconsiderando rispettivi ruoli e relazioni. Un argomento che oggi comincia appunto ad essere presente nell’agenda politica delle grandi metropoli alle prese con problemi di coesione sociale che non possono più affrontare con gli strumenti istituzionali degli ultimi cinquant’anni.

Il secondo sottotema è invece speculare e riguarda i soggetti del terzo settore, che alla sfida della rigenerazione del capitale sociale si presentano frammentati e ripiegati sulle proprie microcomunità di riferimento. Il punto qui è come diventare capaci di sintesi collaborative e superare un atteggiamento di advocacy conflittuale. Gli stessi motivi che portano i governi delle città a cercare l’alleanza con i soggetti del nonprofit e dell’economia sociale, ovvero la crescente complessità dei bisogni sociali e l’impotenza (oltre che insostenibilità) delle risposte standardizzate del welfare classico, sono la sfida più grande per un terzo settore chiamato ad abbandonare la propria “comfort zone” per avventurarsi lungo la strada di una visione sistemica.

L’esplosione particolaristica dei bisogni individuali non può tradursi in rinuncia a cercare soluzioni e risposte collettive. Tuttavia il compito di trovare le necessarie mediazioni tra approccio per frammenti e ottica di sistema non può più poggiare sul potere dell’autorità. Né tantomeno può essere lasciata ai meccanismi e alla forza del mercato. La sintesi va cercata con gli strumenti, tipicamente sociali, della collaborazione. Ad una scala adeguata alla dimensione dei problemi da affrontare e con una capacità trasformativa che tenga nel tempo, dunque sostenibile. Per questo nella prospettiva delle città il modello dell’economia sociale sta divenendo così attraente. A differenza del government e del business, le organizzazioni dell’economia sociale nascono sul terreno della mediazione. Tra valori sociali e efficienza economica, tra motivazioni ideali e criteri di sostenibilità. Presidiando quello spazio, che oggi rischia di spopolarsi pericolosamente, in cui si cerca di favorire le convergenze piuttosto che esasperare le differenze, nello sforzo di produrre visioni condivise.

Su entrambi i fronti – quello delle città che nel pensare al proprio futuro abbracciano senza opportunismi il punto di vista dell’economia sociale e quello del terzo settore (o comunque lo si voglia chiamare) che adotta una prospettiva sistemica con cui si candida ad uscire dalla nicchia – la strada da percorrere non è breve. Ma l’aria che si respirava a Bilbao era promettente. Ancora di più lo sarà, se vogliamo pensare a casa nostra, quando anche qualche città italiana deciderà di unirsi a questo cammino.

 

 

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