Le cooperative di comunità: per un nuovo paradigma di sviluppo economico e sociale

6 Luglio 2016

 Gianluca Salvatori ha scritto il capitolo introduttivo del libro bianco “La cooperazione di comunità” di Euricse, che inquadra il fenomeno delle cooperative di comunità e le principali motivazioni che sono all’origine della nascita di organizzazioni dal basso orientate a offrire nuove soluzioni adeguate ai cambiamenti che numerose aree rurali e urbane stanno affrontando. 

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Con questo Libro bianco dedicato alla cooperazione di comunità, Euricse intende affrontare un tema emergente del quale si sente parlare con sempre maggior frequenza, benché la fenomenologia dei casi concreti sia ancora piuttosto limitata. Il fenomeno delle imprese di comunità, che qui analizziamo soprattutto nella prospettiva della forma organizzativa di tipo cooperativo, è infatti oggi al centro di una curiosa tendenza.


Da un lato, è un argomento che riscuote un interesse crescente, perché introduce un punto di vista originale in ambiti tanto diversi quanto la
rigenerazione urbana e lo sviluppo di aree rurali o periferiche. Senza peraltro limitazioni settoriali, in quanto le dinamiche che questo fenomeno include possono riguardare tanto la produzione di servizi di welfare, e più in generale di beni e servizi di interesse collettivo, quanto la valorizzazione di patrimoni pubblici inutilizzati, la gestione di beni culturali e molte altre attività egualmente rilevanti per l’attivazione di processi di sviluppo locale e per il miglioramento delle condizioni di vita dei residenti. city-people-art-sidewalkIl riferimento alla dimensione locale è ovviamente un aspetto determinante. Gli ambiti di intervento della cooperazione di comunità vanno mantenuti molto ampi, con l’unica limitazione di fare riferimento a luoghi e contesti specifici, in cui siano presenti energie sociali “dormienti” e agiscano fattori endogeni su cui far leva per rivitalizzare spazi o aree, ma anche risorse, legami di fiducia e desiderio di partecipazione alla gestione di attività di interesse della comunità.

Alle organizzazioni di comunità si guarda quindi come ad esperienze di innovazione: la loro importanza risiede nel fatto che si propongono di rimediare ai limiti dei modelli costruiti attorno alla tradizionale centralità dell’intervento pubblico o alla pretesa dei mercati orientati solo o soprattutto al guadagno privato di proporsi come sostituiti più efficienti dell’azione pubblica. In questo senso si tratta di un fenomeno la cui portata va molto oltre le ridotte dimensioni degli interventi di cui attualmente si fa carico.

Esso si configura piuttosto come un modello di portata generale che ha in sé un potenziale di replicabilità. Per questa sua generalità si pone sullo stesso piano delle forme di intervento che si basano sull’autorità dello Stato o sulle interazioni a fini di lucro tipiche del mercato. E rispetto a queste si posiziona sia come modello complementare, quando ci sono le condizioni per una partnership paritetica, sia come strategia alternativa, nel caso in cui i cittadini e le organizzazioni sociali attivandosi autonomamente possano fare meglio degli altri attori, pubblici o di mercato.

D’altro lato, è però evidente che si tratta di un fenomeno sovrarappresentato. Il numero delle esperienze sul campo è al momento esiguo in rapporto all’attenzione di cui godono, ed anche la produzione di analisi e studi è ancora quasi del tutto assente. Le imprese di comunità sono spesso evocate come soluzioni possibili e auspicate, più che come prassi consolidate e ben indagate. È importante che nella discussione questo rischio di sovrarappresentazione sia chiaro e non venga sottovalutato. La discussione va condotta distinguendo tra la realtà attuale, connotata da limitate dimensioni quantitative, e il potenziale futuro. L’assunto da cui infatti il discorso procede – indipendentemente dalla sua consistenza empirica – è che le imprese di comunità sono l’indizio, o se si vuole l’anticipazione, di una nuova fase storica iniziata ben prima dell’attuale crisi e che ha tutte le caratteristiche di un vero e proprio ciclo di lungo periodo. Fase che, limitatamente ad alcune tipologie di servizi, si è già concretizzata nell’esperienza della cooperazione sociale e più in generale delle diverse forme organizzate di gestione di servizi di interesse generale a livello locale. Non è quindi un fenomeno congiunturale che nasce come reazione puntuale agli effetti della recessione economica e alla contrazione della sfera pubblica; piuttosto, è un modello di produzione di beni e servizi che ha caratteristiche che lo rendono potenzialmente robusto e scalabile. Il fenomeno della cooperazione di comunità, in quanto riflette l’esaurirsi della capacità di altri modelli di fornire soluzioni efficaci e durature ai cambiamenti profondi della realtà, può quindi diventare una presenza radicata e diffusa e proporsi come un nuovo paradigma di sviluppo economico e sociale.

Il compiersi di una trasformazione di lungo periodo

Considerato in questi termini l’emergere della cooperazione di comunità assume un significato rilevante, fino a potersi considerare il segnale di un cambiamento di lungo periodo. Collocato in una prospettiva storica questo passaggio si potrebbe schematicamente rappresentare come segue. Nel secolo passato si sono succeduti due cicli che lo hanno dominato per intero: nel primo il principio ordinatore prevalente si può individuare nell’azione dello Stato, la cui autorità ha plasmato parte sostanziale dell’organizzazione sociale, mentre nel secondo è prevalso il ruolo del libero mercato, che ha rivendicato molti degli spazi che in precedenza erano presidiati dal settore pubblico. Le complesse dinamiche di questo passaggio, che ha interessato anche i beni e i servizi di interesse generale, sono state ampiamente indagate e qui non interessa approfondirle. Quel che invece vogliamo porre al centro della nostra riflessione è che da entrambi questi cicli il concetto e il ruolo produttivo dei cittadini organizzati e della comunità era stato espulso, mentre quello cui oggi stiamo assistendo è un netto ritorno di interesse nei suoi confronti, anche al fine di creare forme di economia inclusiva.


Tale
ritorno di interesse per la comunità si spiega con la constatazione che le conseguenze all’interno del tessuto profondo della società del duplice attacco all’idea di comunità non hanno premiato in modo duraturo le intenzioni dei suoi sostenitori. Il processo di atomizzazione sociale, sistematicamente perseguito in decenni di trasformazioni che hanno fatto leva sulla soggettivizzazione di bisogni e desideri per predisporre le migliori condizioni allo sviluppo di una società dei consumi, ha condotto ad una situazione di incertezza e precarietà che si è ribaltata negativamente sulla stessa propensione al consumo.
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La recessione iniziata nel 2008 ha accelerato questo passaggio, facendolo emergere in tutta la sua evidenza. Le pulsioni che negli anni ’80 e ’90 avevano caratterizzato la società italiana per la sua vitalità, aprendo nuovi spazi di protagonismo ai soggetti economici e sociali, al passaggio di millennio hanno lasciato il posto ad un senso diffuso di vulnerabilità. I soggetti, divenuti individui privi del sostegno delle reti e dei valori sociali che nel passato ne avevano accompagnato – con funzioni di riequilibrio – l’ingresso nella modernità, si sono scoperti soli e sconnessi. Esposti all’azzardo, hanno subito il forte impatto di questa trasformazione, che si è sentita con maggiore intensità nel nostro paese in quanto tradizionalmente abituato a compensare la debolezza delle istituzioni statuali con la forza delle reti sociali.


Se questa analisi, spesso sintetizzata nella crisi del modello dicotomico Stato-mercato, è ormai ampiamente condivisa, non lo sono ancora le soluzioni.
Nel nuovo paradigma che avanza, in cui si inseriscono le cooperative di comunità, c’è dunque il tentativo di reagire a questa situazione, rigenerando nuove forme di socialità e passando da uno stato di attesa ad una condizione proattiva. In altre parole: il bisogno di nuova socialità non prescinde dalle forme dell’economia bensì le interpella, e solleva il problema di come rendere l’agire economico uno strumento al servizio della coesione sociale piuttosto che della sua distruzione. La novità è sostanziale: anziché ritagliarsi un ruolo puramente pre-economico, la socialità entra all’interno del discorso economico per trasformarlo. Di conseguenza il concetto di comunità si amplia da ambiente per la generazione e condivisione di valori etici e risorse culturali a infrastruttura in grado anche di produrre beni e servizi secondo una logica economica, senza tuttavia perdere la propria dimensione sociale.

Non è una differenza da poco. Ed è esattamente il motivo per cui il ritorno sulla scena del concetto di comunità non va confuso con un nostalgico rigurgito pre-moderno. Al contrario, quanto oggi emerge con riferimento all’idea di comunità si propone quale condizione necessaria per un nuovo ciclo di modernizzazione. Non è il mito di una decrescita felice ma piuttosto una visione secondo cui il consumo deve essere condizionato dai valori sociali e non viceversa. Reso funzionale ad obiettivi di qualità della vita e regolato da principi di razionalità e responsabilità. Con il concetto di comunità che agisce da luogo in cui questi valori emergono e sono custoditi.

In tal modo si elimina uno degli argomenti favoriti dai critici del concetto di comunità: i legami sociali possono sostenere l’innovazione e lo sviluppo anziché frapporsi ad essi come ostacolo. E questo avviene perché il senso di comunità al quale oggi si aspira non propone il ritorno ai legami vincolanti della tradizione, ma apre alla prospettiva di un “vivere diversamente”. Non è la rinuncia a beni e servizi di qualità e neppure all’auto-realizzazione dell’individuo, bensì è un modo per collocare entrambi all’interno di un paradigma produttivo in cui le relazioni sociali contano e svolgono un ruolo strutturale.


Comunità che mobilitano e rigenerano risorse

Cosa hanno in comune una piccola cooperativa multiservizi che opera in una comunità locale, un collettivo di performing art attivo all’interno di un immobile urbano abbandonato, una rete d’imprese che valorizza una filiera produttiva, un’azienda energetica che struttura smart grid, uno scambio di servizi tra persone collegate da una piattaforma online? Sarebbe indubbiamente più semplice evidenziare le differenze, ma la ricerca di tratti di continuità rappresenta uno sforzo utile e necessario non solo dal punto di vista teorico-concettuale, ma anche per costruire politiche e strategie che valorizzino queste (ed altre) esperienze all’interno di un quadro generale che mette, o meglio rimette, al centro la comunità come attore economico.


È questo l’obiettivo del presente documento: evidenziare non solo l’esistenza di imprese cooperative che focalizzano il loro operato e la loro missione in una comunità, intesa come gruppo di persone che condivide, secondo varie modalità,
valori e culture coagulate intorno a luoghi, interessi, risorse, progetti. L’intento è di dimostrare che esiste un più ampio e diversificato pluriverso di iniziative che riconosce nel “cooperare”, inteso come principio di regolazione e come modello di impresa, l’infrastruttura di un vero e proprio paradigma dell’azione economica e sociale. Dimostrando così che l’agire imprenditoriale in senso cooperativo è tutt’altro che residuale rispetto agli assetti economici e istituzionali tradizionali. Esso può anzi rappresentare una modalità rilevante di innovazione sistemica che merita azioni di supporto mirate da parte di una pluralità di soggetti, a partire da quelli che rappresentano, promuovono e studiano il modello cooperativo.

coop comunità oggiÈ in questo scenario che va quindi collocato il tema dell’impresa di comunità, e di conseguenza l’interesse specifico di Euricse nei confronti di questo fenomeno. Perché la dimensione imprenditoriale rappresenta forse la novità più originale di questa concezione della comunità. In quanto l’idea di comunità qui sta appunto ad indicare la costruzione di un tessuto di solidarietà che nasce dalla ricerca di soluzioni a problemi comuni su una scala sufficientemente delimitata da compensare il sentimento di impotenza che assale gli individui di fronte ai problemi complessi. Soluzioni alla portata di chi vive i problemi, perseguite tramite la produzione di beni e servizi – quindi con gli strumenti e l’organizzazione propria di un’impresa – per consentire a nuove prassi comunitarie di incidere sulla vita economica, visto il ruolo centrale di quest’ultima nel definire ogni forma di organizzazione sociale.

Quindi, ciò che anima questo rinnovato senso di comunità non è ciò che il passato ci ha tramandato, ma la tensione verso il futuro. La comunità così intesa è al tempo stesso strumento e oggetto di sviluppo, come nella tradizione anglosassone del community development, che considera la comunità una realtà dinamica più che un dato di natura. Coerente conseguenza di una visione aperta della cittadinanza, come diritto di suolo anziché di sangue, in cui le esigenze dell’inclusione prevalgono su quelle dell’autodifesa dal diverso e in cui si fa leva sull’attivazione di tutte le risorse, dormienti o meno, di cui la rete delle relazioni sociali è dotata.

Proprio il tema del “capitale dormiente” è infatti l’altro elemento centrale di questo passaggio di ciclo, che integra il ricorso all’idea di comunità come reazione al senso di insicurezza e frammentazione che la riduzione della modernità ad individualismo ha prodotto. Se infatti una posizione di attesa accelera il degrado dei nostri ambienti di vita, l’idea che qui emerge è che a partire dagli spazi quotidiani in cui agiamo si debbano rimettere in circolo competenze individuali, asset comunitari, beni pubblici, risparmi delle famiglie, e altre risorse tangibili o intangibili scarsamente utilizzate, con l’obiettivo di prendersi cura della dimensione sociale. Si tratta quindi di un processo di riattivazione della società dal basso, che non viene guidato dalle disposizioni di un’autorità pubblica o da un interesse motivato prioritariamente dal guadagno, ma dal desiderio di ciascuno di migliorare il proprio ambiente di vita, tramite un impegno collettivo. La logica che qui prevale non coincide né con i meccanismi che regolano l’intervento dello Stato né con quelli del mercato. Infatti l’azione dei soggetti sociali può prendere diverse forme, attraverso uno spettro che va dalla donazione, di tempo o risorse, ad un agire imprenditoriale orientato alla massimizzazione del valore sociale, anziché del profitto individuale.

L’importanza di focalizzare l’attenzione sulla comunità sta pertanto in questo: l’impegno per attivare le risorse accumulate nel lungo ciclo di sviluppo che il nostro paese ha vissuto dagli anni del boom economico in poi, risorse in buona parte “dormienti” o inagite, viene fatto coincidere con un luogo, una geografia, un ambito fisico al quale siamo direttamente legati. L’impegno al miglioramento della qualità delle relazioni sociali non è quindi generico: riguarda uno spazio di relazioni in cui possiamo esercitare attivamente una responsabilità osservandone direttamente e personalmente gli effetti. Il perimetro in cui l’efficacia delle azioni può essere valutata viene così delimitato e si definisce un’area in cui, se lo desideriamo, possiamo agire senza delegare.

 

Un rinnovato spazio d’azione per l’economia sociale

51GpVT7tYoL._SX322_BO1,204,203,200_Certo, non è un compito facile e i risultati non sono scontati. Bowling alone è il titolo del libro che nel 2000 il politologo Robert Putnam ha dedicato alla crisi del senso comunitario nella società americana. L’immagine del giocatore solitario, che pratica il bowling come sport individuale, quando prima era un’attività che legava insieme più persone, indica il punto estremo della perdita di quei legami su cui la società americana nel passato ha costruito il proprio successo, anche economico. Anche quell’idea pragmatica e aperta di community, che da noi è stata di ispirazione per il processo di rottura della tradizione, vive oggi in uno stato di sofferenza. Ne consegue che non basta più l’emancipazione dall’idea di comunità chiusa, retaggio del nostro passato, per fare della dimensione comunitaria uno dei principi del nuovo ciclo di sviluppo. In un contesto in cui né lo Stato né i puri meccanismi di mercato  sono in grado di riprendersi la scena da soli, occorre elaborare nuove infrastrutture istituzionali, cognitive e organizzative. All’economia sociale serve sviluppare nuovi modelli di impresa, regole di governo, schemi di funzionamento, procedure di apprendimento. Questa è la priorità dei prossimi anni. Policy makers, strateghi, attivisti e studiosi sono chiamati ad impegnarsi per dare una forma più precisa a questa che per ora è più che altro una tendenza allo stato nascente. Serve dotarla di strumenti robusti in grado di sostenerne la crescita. Anche al fine di trarne fino in fondo le conseguenze, facendo emergere gli elementi di un modello di sviluppo adeguato al nuovo ciclo che abbiamo dinanzi.

I tempi sono favorevoli, il punto sta nel dare spazio a forme nuove di impresa, basate su principi cooperativi, adatte ad affrontare i nuovi problemi sociali; nell’indicare la strada di una presa in carico e valorizzazione dei beni comuni a partire dall’impegno di una cittadinanza attiva; nel favorire iniziative imprenditoriali a scopo sociale in ambiti, come il welfare e i servizi pubblici di interesse generale, rispetto ai quali né lo Stato né le pure forze di mercato sono in grado di fornire risposte esaustive ed inclusive. Come emerge dai risultati contraddittori ottenuti dalle imprese tradizionali quando cercano di ispirarsi a principi cooperativi, nel tentativo di aggiornare il proprio modello di business senza però una sua autentica messa in discussione. In Euricse siamo convinti che la cooperazione di comunità interpreti questo bisogno e fornisca argomenti per una risposta indirizzata nella giusta direzione. Ma essendo ancora un fenomeno acerbo crediamo anche che ci sia molto lavoro da fare perché dallo spontaneismo dello stato nascente emerga un modello. Nelle pagine che seguono presentiamo un primo contributo, dedicato all’analisi del fenomeno nelle sue caratteristiche principali. Più che un lavoro di ricerca è un position paper: serve a definire un ambito entro il quale la riflessione andrà resa più penetrante e puntuale. Per noi è l’inizio di un percorso, al quale speriamo di poter aggiungere presto altri contributi utili a far progredire la discussione su questo tema.

 

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