Cooperative in assemblea: i temi al centro del dibattito internazionale

28 Novembre 2017

di Gianluca Salvatori

Il movimento cooperativo si è riunito, come avviene ogni due anni, per l’assemblea dell’International Cooperative Alliance, la più articolata ed ampia organizzazione di rappresentanza delle cooperative di tutto il mondo. A Kuala Lumpur, in Malesia, erano presenti più di 1800 delegati provenienti da una settantina di paesi, inviati da federazioni nazionali e settoriali. Una dimostrazione efficace della estensione e della varietà della cooperazione a livello globale.

Malgrado però la grande differenza di dimensioni – in un sistema al quale appartengono tanto piccole cooperative di coltivatori di caffè in Etiopia quanto grandi banche come Crédit Agricole, che da sola ha un giro d’affari di quasi 50 miliardi di dollari – vi sono stati temi che hanno catalizzato l’attenzione dei partecipanti, evidenziando alcune tendenze comuni. Molte problematiche appaiono infatti trasversali e prescindono da ambiti d’attività e contesti nazionali.

Tre, in particolare, sono gli argomenti che sono tornati più frequentemente nelle discussioni. Il primo riguarda la questione della capitalizzazione e dell’accesso alla finanza. Il secondo coinvolge il tema della crescita dimensionale e – in particolare – il ruolo che in questa possono svolgere le piattaforme digitali. Il terzo ruota attorno al contributo del modello cooperativo allo sviluppo sostenibile, in un tempo in cui l’attenzione per questo argomento sta diffondendosi anche nel mondo delle imprese tradizionalmente rivolte alla massimizzazione del profitto.

Quanto al primo argomento, la premessa è che in generale le cooperative sono solite avere una percezione diretta dei propri problemi, poco condizionata dalle opinioni di chi non conosce dall’interno questo peculiare modello di impresa. Quando però si tratta di capitalizzazione e di accesso alla finanza, il mondo cooperativo sembra farsi influenzare irrimediabilmente dalla vulgata. Si accoglie passivamente l’opinione secondo cui la natura del modello cooperativo sia di ostacolo alle imprese in cerca di risorse per la propria crescita. L’apporto dei soci – sostengono i critici – è una forma di capitale instabile perché può essere facilmente ritirato. E gli investitori esterni, che già sono marginali a motivo della specifica struttura proprietaria delle cooperative, non vengono attratti dalle cooperative anche in ragione dei bassi rendimenti che queste possono offrire. Di qui l’assunto, che spesso influenza gli stessi regolatori pubblici, secondo cui le cooperative incontrano più problemi nel raccogliere capitale rispetto alle altre forme di impresa.

Guardando però i dati – ed è ciò che Euricse ha fatto integrando nel World Cooperative Monitor una specifica analisi dedicata all’accesso al capitale da parte delle cooperative – emerge una realtà diversa. Dallo studio presentato e discusso nel corso dell’assemblea internazionale, emerge una situazione più sfaccettata. Le grandi imprese cooperative, proprio in quanto dipendono di meno dall’apporto di investitori esterni, mostrano una struttura del capitale che le rende finanziariamente più solide rispetto alle altre imprese. Mediamente le grandi cooperative sono meglio capitalizzate delle corrispondenti società quotate. E questo è vero in ognuno dei principali settori in cui sono presenti: agricoltura e industria alimentare, consumo, credito e servizi finanziari. Le grandi cooperative, pur rinunciando a dotarsi di strumenti di finanza tipici delle società di capitale, riescono ad ottenere risultati positivi. Anzi, in certa misura, ancor più positivi delle altre imprese perché possono contare su meccanismi quali il reinvestimento degli utili e l’asset lock, che favoriscono una struttura del capitale ad accumulazione incrementale. Più è lunga la vita di una cooperativa, più è facile che sia finanziariamente solida.

Per contro, come è ovvio, una cooperativa che si trovi nella fase nascente e abbia dimensioni ridotte ha in effetti problemi di accesso alla finanza, ma non troppo diversi da quelli di una qualunque piccola impresa. E’ qui che va quindi concentrata l’attenzione. La difficoltà che secondo l’opinione corrente riguarda l’intero modello cooperativo, in realtà concerne soprattutto (se non esclusivamente) le cooperative che si trovano nella fase di avvio, quando non possono ancora contare su economie di scala e su effetti cumulativi. E’ allora che faticano ad ottenere capitale di origine interna e credito di lungo periodo, strumenti necessari alla crescita a lungo termine.

Anche in questo caso però la natura del modello cooperativo può rivelarsi un beneficio più che un ostacolo. Per compensare i vincoli posti all’accesso alla finanza, a differenza di altre forme di impresa, una nuova cooperativa ha a disposizione alcuni strumenti che sono specifici della struttura a rete del mondo cooperativo. Fondi mutualistici, fondi di garanzia, fondi per lo sviluppo, sono esempi di mutua assistenza finanziaria con cui le cooperative più robuste ed avviate possono sostenere le nuove iniziative imprenditoriali. Le organizzazioni di secondo livello possono svolgere un ruolo fondamentale nel raccogliere capitale e finanziare le cooperative più piccole e di nuova costituzione. La dimensione intercooperativa può rappresentare un capace modello di impresa a rete che è in grado di compensare le carenze che solitamente sono attribuite al modello cooperativo di capitalizzazione.

Questa constatazione rimanda al secondo tema, quello del rapporto tra un modello di crescita a rete e le piattaforme digitali. Come si è detto, il tema della capitalizzazione offre lo spunto per interpretare come elemento di forza quella che in genere è considerata una debolezza del modello cooperativo. Una considerazione analoga, ma di segno opposto, vale sul fronte del rapporto tra cooperazione e piattaforme digitali. La cooperazione è capillare, multisettoriale, orientata alle persone. Il suo punto di forza è un network di imprese presente in ogni paese del mondo e unito a livello internazionale. Il potenziale in termini di business intelligence è quindi immenso.

La business intelligence è sempre di più un fattore di competitività imprenditoriale. Le imprese più innovative hanno già imboccato da tempo la strada di un utilizzo più intensivo dei dati che producono e raccolgono. Si tratta di un effetto della transizione ad una knowledge economy, in cui la conoscenza capillare e dettagliata dei mercati, dei clienti, dei bisogni, delle comunità, assume un valore inestimabile per progettare nuovi prodotti e nuovi servizi. Sta qui il motivo dell’enorme successo dei nuovi monopoli digitali, da Google a Amazon, da Facebook ad Apple. E della guerra che ogni giorno si svolge per l’acquisizione e il controllo dei dati che come utenti e consumatori produciamo in un flusso continuo e sempre più abbondante.

Se la cooperazione di consumo, la cooperazione di credito, le mutue assicurative, e la cooperazione di salute – solo per fare un esempio – condividessero dei progetti di data analysis ne scaturirebbero tutti gli elementi necessari per un enorme salto di qualità nell’offerta di beni e servizi ai propri membri e alle proprie comunità. E questo, al tempo stesso, costituirebbe uno straordinario volano per la crescita dimensionale delle cooperative stesse. Tuttavia questo potenziale non è sfruttato quasi per nulla dalle cooperative. Alla “data analysis” non si presta molta attenzione e le cooperative si pongono rispetto alle piattaforme digitali come semplici utenti anziché soggetti protagonisti. Quando va bene, vendono i propri prodotti sulle piattaforme dei giganti del web, ma nulla più di questo.

La conseguenza, quando non si è in grado di pensare in termini di “innovazione cognitiva”, è una distanza sempre più grande tra imprese che anticipano le tendenze e imprese che sono costrette ad inseguire. Ed il rischio che si percepiva nei commenti e nelle riflessioni dell’incontro di Kuala Lumpur è che il sistema cooperativo si sia mosso tardi e lentamente. Per contrastare la concentrazione dell’industria digitale non basta infatti una consonanza culturale con i principi di un’economia collaborativa.

Il tentativo di recuperare una posizione sul tema, rappresentato dal dibattito sulle piattaforme digitali cooperative, rischia a sua volta di arrivare in ritardo e di svilupparsi a partire da un assunto volontaristico.  E’ infatti vero che, potenzialmente, gran parte del mondo digitale utilizza principi collaborativi che si potrebbero prestare bene ad essere organizzati attraverso forme imprenditoriali cooperative. Però è altrettanto vero che in ambito digitale vale l’”effetto rete”, che favorisce la formazione di grandi monopoli in quanto a prevalere è il principio secondo cui l’utente opta sempre per la piattaforma più popolare e diffusa in quanto garantisce l’accesso ad un pubblico più ampio. Una piattaforma che ha successo è destinata a crescere esponenzialmente, accrescendo sempre di più la propria influenza. Quindi lo spazio per i nuovi entranti è drasticamente ridotto, come testimoniano le migliaia di applicazioni e piattaforme digitali che nascono e muoiono senza riuscire a guadagnarsi l’attenzione di un’audience sufficiente.

Malgrado le premesse, la tendenza della sharing economy digitale sembra andare in direzione di poche imprese “superstar” che traggono vantaggio del lavoro gratuito dei propri utenti, più che di strumenti condivisi in cui il valore prodotto viene equamente distribuito tra i partecipanti. In questo scenario le piattaforme digitali cooperative sono un interessante tema di studio, ma realisticamente per ora non c’è alcun segno che dimostri la loro capacità di affermarsi nella competizione con i giganti del web. Il tempo della loro gestazione intellettuale probabilmente è stato troppo lungo rispetto alla rapidità di iniziativa delle imprese nate per sfruttare al massimo il vantaggio competitivo (e economico) della innovazione digitale. Imprese, detto per inciso, che non hanno nessuna propensione allo sharing dei propri profitti.

E ciò introduce il terzo tema di discussione, che si potrebbe così sintetizzare: il modello cooperativo incarna idealmente i valori della sostenibilità in tutte e tre le accezioni che oggi prevalgono – ambientale, sociale e di governance – ma stenta a affermare la propria leadership. Viceversa le imprese di capitali sono sempre più impegnate ad accreditarsi come modelli di coerenza rispetto ai principi ESG (environment, social, governance), presentandosi come campioni di sostenibilità anche quando fino ad un recente passato non si distinguevano certo per l’attenzione ai temi sociali e ambientali. Il modello cooperativo è dunque sfidato sul suo terreno più proprio, quello della responsabilità nei confronti delle persone e delle comunità.

Per uno di quei paradossi che spesso si divertono a rimescolare le carte della storia, mentre nel mondo cooperativo si diffondeva il rischio di comportamenti ispirati al modello dell’impresa capitalistica, con un’enfasi isomorfistica sui temi dell’efficienza e della competitività, nel campo delle imprese di capitali il movimento si svolgeva nella direzione opposta, internalizzando temi e prospettive derivanti dall’attenzione per il sociale e per i valori della sostenibilità ambientale.

Il fatto è che pur potendo rivendicare una coerenza di sostanza con gli obiettivi dello sviluppo sostenibile, il movimento cooperativo sembra faticare nel raccontarsi con linguaggi e pratiche in grado di catturare l’attenzione. Nei discorsi ascoltati a Kuala Lumpur il riferimento agli SDG – gli obiettivi di sviluppo sostenibili fissati dalle Nazioni Unite – è sembrato spesso rituale, quasi istituzionale. Come se l’interlocutore privilegiato fosse l’assemblea delle nazioni più che le comunità locali. Laddove le imprese non cooperative hanno forse colto con maggiore rapidità il significato che i temi della sostenibilità stanno assumendo presso l’opinione pubblica, ed hanno cominciato ad impadronirsene come strumento per porsi in comunicazione diretta con i valori e le preoccupazioni degli utenti e dei consumatori.

Dietro a questo paradosso c’è ancora una volta, come già nel caso delle piattaforme digitali, un deficit nell’entrare in sintonia in tempo reale, o quasi, con le trasformazioni in atto nel presente. Il modello cooperativo, tarato su uno sviluppo di lungo termine, non si trova a proprio agio con i mutamenti che richiedono rapidità e reattività. Per usare la metafora di Peter Drucker, la cooperazione è un sistema di imprese fatte per durare nel tempo, come le piramidi, più che per essere smontate e spostate in una notte, come le tende dei nomadi. Con le relative conseguenze in termini di innovazione.

In conclusione, da un’assemblea come quella dell’ICA emerge una rappresentazione della varietà e diversità del movimento cooperativo che ne mette in luce tanto i punti di forza quanto quelli di debolezza. Sovvertendo la comprensione che le cooperative hanno di sé, il problema principale non sembra essere quello delle risorse per lo sviluppo bensì la capacità di elaborazione ed attuazione di nuove idee. La cooperazione ha tutte le condizioni per anticipare nuove tendenze ma non riesce ad evitare che altri le facciano proprie e le sfruttino con maggiore ampiezza e velocità. La crescita lenta che è alla base del modello cooperativo è certamente un valore da conservare, ma le domande che emergono dalla società richiedono anche una maggiore assunzione di rischio nel tentare vie nuove. Mettere a tema la capacità di innovazione dovrebbe essere la priorità per assicurare un futuro al modello cooperativo. A Kuala Lumpur questa sfida non è emersa con chiara consapevolezza, ma tra le righe di ogni discorso ne erano presenti abbondantemente le tracce.

Gianluca Salvatori

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