“Beni comuni, se arricchiti arricchiscono tutti”

22 Ottobre 2018

Arena: “L’Italia è laboratorio. Con il Regolamento abbiamo intercettato un fenomeno in exploit”

 

Gregorio Arena sceglie una definizione efficace per rendere l’idea: “I beni comuni se arricchiti arricchiscono tutti, se impoveriti impoveriscono tutti”. Et voilà. Ecco restituito a pieno il senso ultimo di ciò che realmente rappresentano beni indispensabili all’esercizio di diritti fondamentali. “Come l’acqua, la biosfera, la biodiversità”, ci spiega ancora il docente. Già professore ordinario di diritto amministrativo all’Università di Trento, presidente di Labus-Laboratorio per la sussidiarietà, Arena da oltre quattro anni sta varcando le porte di decine e decine di città italiane che attraverso il Regolamento per l’amministrazione condivisa dei beni comuni stanno riscoprendo un rinato attivismo, un impegno osservato con attenzione nel resto d’Europa. Ma la gestione condivisa dei beni comuni è anche altro. “Dalla cura dei beni abbandonati – ricorda Arena – si possono generare opportunità sviluppo, nuova occupazione”. Ma servono competenze. Ed è qui che nasce Sibec, la prima Scuola italiana per la gestione dei beni comuni. Ed è qui, ancora, che s’innesta Sibec Lab, il corso intensivo che dal 17 al 20 ottobre, all’Oasi Dynamo, formerà professionisti, cittadini attivi o funzionari interessati (qui è possibile leggere il programma).

Professore, innanzitutto cosa s’intende quando si parla di beni comuni? Cosa sono?
“I beni comuni sono beni indispensabili alla vita e all’esercizio di diritti fondamentali: acqua, biosfera, biodiversità. Ma sono anche beni comuni immateriali come legalità, memoria collettiva, sicurezza, salute, i dialetti. Ovvero beni che se arricchiti arricchiscono tutti e, se impoveriti, impoveriscono tutti. In questo senso i beni comuni non sono suscettibili, sono beni condivisi per definizione. Labsus in questi 4 anni, girando tutto il Paese, ha cercato di individuare un Regolamento che ossa tradurre il principio di sussidiarietà. E sin dal principio abbiamo notato un crescente interesse: questo regolamento ha incrociato un fenomeno sociale, che solo in parte ci aspettavamo”.
A quattro anni e mezzo dal 22 febbraio del 2014, giorno in cui è stato presentato a Bologna il Regolamento per l’amministrazione condivisa dei beni comuni di Labsus, i Comuni che hanno approvato il Regolamento sono 158, altri 66 hanno avviato la procedura. Cosa ha generato questo interesse, a suo avviso?
“Sin dal primo momento, centinaia di cittadini ci hanno chiesto di andare da loro, di spiegare cos’era il Regolamento: noi abbiamo offerto un quadro giuridico a chiunque volesse prendersi cura di piazze, fontane, rovine archeologiche, parchi. Ecco: il Regolamento si è rivelato lo strumento perfetto per questi cittadini attivi, per chi già si stava impegnando o voleva iniziare a farlo. L’esito è stato una diffusione di buone pratiche: quando gli abitati di un quartiere presentano la proposta di Patto a un Comune, si prendono cura di un bene, generano empatia, calore. Nel fare tutto ciò, i cittadini creano un doppio legame: tra loro, rafforzando lo spirito di comunità, in più producono coesione, integrazione, aiutano persone sole a uscire dalla solitudine, creano dei benefici che vanno ben oltre la manutenzione in sé”.
Quindi non è solo questione pratica, tangibile, ossia evitare di assistere all’abbandono di parchi, aree verdi, porzioni di città?
“Il vero valore è quello impalpabile: le persone ricostruiscono legami di comunità e questo ci dà resilienza, perché ci aiuta a reggere, a creare unità. Il secondo legame è invece visibile a occhio nudo e si manifesta tra le persone e il bene di cui si prendono cura. L’esito è una magia”.
Avvicinarsi alla gestione condivisa dei beni comuni significa anche generare occupazione. In quale modo?
“Bisogna distinguere tra la cura dei beni comuni urbani e la cura dei beni abbandonati: secondo Legambiente sono 5 milioni gli edifici abbandonati. Sibec è nata da una proposta di Labsus e Euricse per formare gestori di questa seconda categoria, per fare in modo che questo immenso patrimonio possa essere recuperato e gestito. Non solo: il vero nodo è capire cosa fare dopo aver rigenerato un bene, quindi innestare attività che diano lavoro, che producano sviluppo. In altri termini: attività che producono reddito. La scommessa è dunque questa: come gestire un bene comune abbandonato in modo che dia sviluppo e crei lavoro? Chiaramente progettando iniziative insieme con la comunità, coinvolgendo fondazioni, imprese, categorie”.
Ha spiegato che i Regolamenti hanno intercettato un fenomeno crescente: questo impegno civico e questa riscoperta della cura dei beni comuni sono diffusi su scala internazionale? Ci sono pratiche che si potrebbe importare in Italia?
“In realtà l’Italia è stata ed è laboratorio: in questo caso abbiamo il vantaggio di avere il principio di sussidiarietà in Costituzione e siamo gli unici. Sia chiaro: i cittadini non sono supplenti di amministrazioni inefficienti, agiscono e integrano le azioni possibili perché vogliono e possono farlo ma i Comuni hanno l’obbligo di occuparsi dei beni comuni. In Spagna e in Francia guardano a cosa stiamo facendo, l’impressione è che il fenomeno si stia espandendo. E’ un’onda, fatta di tanti puntini luminosi. Ora dobbiamo solo fare in modo che tutte queste esperienze già nate comunichino tra loro, creino un network”.

 

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